Questa estate l’opinione pubblica nazionale ha finalmente “scoperto” la mafia foggiana. Purtroppo, come capita sempre in questo nostro apatico e smemorato Paese, la scoperta è avvenuta a seguito di un evento clamoroso, l’omicidio di due onesti imprenditori agricoli che per caso si erano trovati al posto sbagliato nel momento sbagliato. I fratelli Luigi e Aurelio Lucianisono stati gli “effetti collaterali” di un agguato di mafia peruccidere il boss del Gargano. Dopo tre mesi non riusciamo a dimenticare le parole di Anna, la moglie di Luigi: “La sola colpa di mio marito è stata quella di andare a lavorare”. Appunto, lavorare, perché per fare onestamente il proprio lavoro di imprenditore in queste terre bisogna mettere in conto la possibilità di morire, come se la morte fosse un inevitabile costo d’impresa.
Nelle scorse settimane la stampa nazionale ha dedicato qualche trafiletto alla notizia dell’approvazione da parte del Consiglio Superiore della Magistratura di una relazione sulla situazione della mafia foggiana, per troppo tempo sottovalutata e colpevolmente nascosta. Il CSM si esprime con nettezza: “Il fenomeno mafioso è, quindi, nell’insieme, compatto, feroce, profondamente radicato sul territorio, su cui esercita un vero e proprio controllo militare”.Procede sottolineando “la capacità di coniugare tradizione e modernità... La tradizione è quella del ‘familismo mafioso’ tipico della ‘ndrangheta e della ferocia spietata della camorra cutoliana; la modernità, invece, è la vocazione agli affari, la capacità di infiltrazione nel tessuto economico-sociale, la scelta strategica di colpire i centri nevralgici del sistema economico della provincia, e cioè, l’agricoltura, l’edilizia e il turismo”. Di conseguenza,l’attenzione non poteva non rivolgersi al mondo imprenditoriale e alle ragioni di acquiescenza e di collusione per denunciare “atteggiamenti di asservimento o di indifferenza nella società civile… che, sul versante giudiziario, si traduce in comportamenti omertosi delle vittime con conseguenti difficoltà investigative e di accertamento giudiziale”.
I comportamenti imprenditoriali (non tutti, per fortuna)rappresentano sicuramente la principale ragione di forza della criminalità foggiana. Soprattutto quando la sottomissione non è effetto della comprensibile paura di violenze o rappresaglie, ma bensì di ragionati calcoli di convenienza. “Gli imprenditori, nel corso degli anni, sono passati da un assoggettamento estorsivo di tipo violento, ad un atteggiamento di volontaria sottomissione al sistema mafioso: spesso, infatti, è lo stesso imprenditore che si reca autonomamente dal mafioso per pagare il pizzo, anticipandone in tal modo la richiesta”. Pur se non sempre agisce l’intenzione di un vantaggio diretto, la classica relazione di reciprocità che configura collusione e complicità, secondo il CSM prevale comunque “la consapevolezza che l’agibilità del percorso esistenziale, economico, sociale e familiare non può affrancarsi dalla protezione mafiosa”.
Fa impressione leggere queste parole venticinque anni dopo l’omicidio di un coraggioso imprenditore edile di Foggia e registrare quanto poco in un quarto si secolo sia cambiata la situazione. Era il 6 novembre del 1992. Giovanni Panunzio era in macchina dopo aver assistito al consiglio comunale di Foggia che proprio quella sera approvava, dopo trent’anni, il Piano regolatore della città. Viene ucciso perché non si era voluto piegare e perché aveva iniziato a collaborare con la polizia. Michela Magnifico con la collaborazione di Giovanna Belluna Panunzio ha raccontato questa storia in un libro (“Il coraggio di un uomo”) e riporta alcune parole di Lino, il figlio di Giovanni: “Papà aveva sudato e lottato per andare avanti. Non riusciva proprio ad accettare che qualcuno pretendesse qualcosa da un'altra persona. Allo stesso tempo, papà non avrebbe mai immaginato che coloro che conosceva da anni, i ragazzi della strada, che come lui erano cresciuti a Borgo Croci, ma che diversamente da lui avevano scelto un’altra strada ‘quella sbagliata’, potessero decidere la sua morte. Quella fisica, materiale, decisa in una città rimasta, a distanza di decenni, schiacciata in un pericoloso vortice di lassismo e ignavia”. Lino aveva 25 anni: “Ero felice perché lavoravo nell'impresa di famiglia e stavo apprendendo tutti i trucchi del mestiere da papà. Trascorrevo la maggior parte della mia giornata con papà, nonostante fossi sposato. Ma io e lui eravamo un'unica cosa. Ricordo la prima volta in cui mi confidò, dopo averlo fatto con la Polizia, di essere stato avvicinato da alcune persone che lui conosceva e che gli avevano chiesto denaro”
Alla fine degli anni ottanta, come ricorda Lino, “la mafia è entrata in casa nostra”: iniziano le pressanti richieste di pizzo, le minacce, le telefonate nel cuore della notte, sino all’aggressivo avvertimento nel 1990, quando due giovani a bordo di una moto si affiancano alla sua auto e gli esibiscono una pistola; il segnale è chiaro: bisogna mettersi a posto. Ma Panunzio si mette a posto a modo suo. Inizia a scrivere un memoriale, con date, ore, luoghi e, soprattutto nomi, segnali, minacce, intimidazioni: pensa che possa essere una garanzia per la propria vita. Perchè non vuole piegarsi.Sa bene qual è la posta in gioco. Tutto quello che ha è solo frutto di durissimo lavoro, di sacrifici, di abnegazione, di tempo sottratto alla famiglia; da muratore negli anni è diventato un imprenditore di successo, non può rinunciare alla sua libertà. In quei momentiha chiaro che se lo facesse butterebbe a mare tutto. Diceva quasi due anni prima Libero Grassi, l’imprenditore ucciso a Palermo il 29 agosto del 1991: “Non sono un pazzo, sono un imprenditore e non mi piace pagare. Rinuncerei alla mia dignità. Non divido le mie scelte con i mafiosi”.
E come Libero Grassi Giovanni Panunzio è stato ucciso perché unica voce fuori dal coro, perché a partire dai suoi colleghi venne lasciato in solitudine; l’opposizione di quell’imprenditore non poteva essere tollerata dalla mafia foggiana, in particolare nel momento in cui attorno al Piano regolatore si muovevano corposi interessi: la ribellione metteva in discussione il controllo dell’attività edilizia. Bisognava impedire che altri seguissero il suo esempio. In quei primi anni novanta, in quei mesi, sembrava che qualcosa stesse veramente cambiando nel nostro Sud. A dicembre del 1990 si costituisce la prima associazione antiracket a Capo d’Orlando, a novembre del 1991 si ha la sentenza di condanna degli estorsori. Per la prima volta si offre all’opinione pubblica nazionale e, soprattutto, agli imprenditori la possibilità di coniugare denuncia e sicurezza, un modello vincente che, anche in Puglia inizia ad affermarsi. Nei primi mesi del 1992 nasce l’associazione antiracket di San Vito dei Normanni, anche qui, come a Capo d’Orlando, commercianti che denunciano e si rivolgono alle forze dell’ordine. Se ne parla molto, ne scrivono i giornali, ne parlano gli imprenditori. Questo nuovo vento va fermato. Non deve arrivare a Foggia. Serve un’azione esemplare, non si può più andare per il sottile: a Foggia la mafia sceglie di essere mafia. L’omicidio di Panunzio serve per far capire a tutti gli altri che quella non è più comune criminalità, è mafia, come quella che pochi mesi prima ha destabilizzato l’Italia a Capaci e a Via D’Amelio.
A noi tutti fu subito chiaro il significato dell’omicidio. Assieme ad altri colleghi dell’associazione di Capo d’Orlando ci precipitammo a Foggia per incontrare i familiari, essere al funerale e offrire l’esempio del nostro modello ai colleghi foggiani. Quel giorno colpì l’assenza di qualunque rappresentante istituzionale e politico come se quel funerale riguardasse una morte per vecchiaia o malattia, insomma, quell’omicidio veniva considerato una semplice storia “privata” di familiari e amici; quelle assenze erano il sintomo della condizione della città. Per molti anni fummo vicini a Lino e alla sua famiglia, entrarono a far parte della “famiglia” dell’antiracket, conobbero altri colleghi, vennero in Sicilia. In quell’occasione mi impegnai ad essere presente al processo. Alla prima udienza mi costituì parte civile con un’associazione nazionale che avevamo promosso proprio dopo la tragedia foggiana come strumento per intervenire laddove non vi erano associazioni. Come a Gela dove, quattro giorni dopo, venne ucciso Gaetano Giordano, un commerciante che aveva denunciato gli estorsori.
Dopo tutti questi anni ancora oggi è centrale il tema della solitudine e dell’isolamento degli imprenditori che si oppongono al racket. Dopo Libero Grassi, dopo Giovanni Panunzio, dopo Gaetano Giordano fu a tutti evidente che l’associazione antiracket è il più efficace strumento per impedire il ripetersi delle tragedie, per dare forza attraverso la denuncia collettiva a tutti gli operatori economici che scelgono la libertà. Non a caso, il documento del CSM si conclude proprio invitando tutti i soggetti istituzionali a valorizzare queste esperienze come quella vincente di Vieste: “Meritano di essere valorizzate le esperienze di associazionismo presenti sul territorio volte a sostenere gli imprenditori vittime del racket o che, anche operando in altri settori, sono, comunque, di sollecitazione e sostegno all’impegno civico e collettivo. A questo scopo soprattutto le istituzioni politiche devono muoversi nella direzione di favorire dette forme di associazionismo e di sostenere quelle già esistenti, se possibile con contributi o agevolazioni economiche, nonché dal punto vista logistico e della organizzazione. Tali interventi sono urgenti.”