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“Premio della Legalità” della FAI, molto più di un semplice riconoscimento -

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Si è svolta ieri la cerimonia di consegna del "Premio della Legalità" ideato e organizzato dalla F.A.I. – Associazione Regionale Antiracket di Molfetta che ha vito protagonisti e premiati il dott. Luigi Rinella, Capo della Squadra Mobile di Napoli; la dott.ssa Patrizia Rautiis, Sostituto procuratore della Repubblica della DDA di Bari; i ragazzi dell'I.T.T. Mons. Antonio Bello di Molfetta per aver affrontato e sviluppato un progetto improntato alla legalità. Premiati con loro grande sorpresa anche due imprenditori in passato vittime del racket e che sono riusciti a riaprire la propria attività grazie all'ausilio dell'Associazione molfettese, Roberto de Blasio, socio ed imprenditore nel campo sicurezza e che ha fatto della lotta al racket la cifra importante del suo lavoro.

Una cerimonia che ha visto l'intervento e la relazione di importanti ospiti non solo appartenenti al mondo associazionistico antiracket italiano ma altresì alle forze dell'ordine e di giustizia. ed è proprio a loro che il Viceministro dell'Interno, on. Filippo Bubbico, e il Presidente onorario Nazionale della F.A.I., Tano Grasso, hanno rivolto il loro particolare ringraziamento per il lavoro che ogni giorno svolgono sul campo, per l'assistenza e la sensibilità dimostrata nei confronti di chi cade vittima dell'incubo del racket e dell'usura da cui è difficile venire fuori. 

E perché è così difficile uscire dall'incubo del racket e denunciare? Questo l'interrogativo che il presidente Grasso ha lanciato alla platea presente, questo il pensiero che ha voluto condividere a cui non riesce a dare una risposta chiara e definita nonostante il grande lavoro svolto anche dalle associazioni antiracket e antimafia che sanno fare squadra ma soprattutto rete sul territorio. Forse un accenno di risposta a quella domanda è nella convenienza, nell'accomodamento a una situazione che seppur appaia stretta e talvolta soffocante non espone al rischio di essere barbaramente uccisi, come è avvenuto non molto tempo fa ad un imprenditore di Vieste.

Sì, perché Vieste, come è stato più volte sottolineato, è il nuovo obiettivo, il grande fortino della malavita legata al racket da espugnare, il dittatore oscuro che la F.A.I. vuole e deve sconfiggere per rendere libera una terra stupenda. 

Significativo altresì l'intervento del Predetto di Bari Marilisa Magno, che ha ribadito il grande lavoro svolto al contrasto del racket in terra di Bari con la conseguente diminuzione delle denunce, e l'intervento del Sindaco Tommaso Minervini che ha espressi la sua totale vicinanza all'associazione molfettese. 

Una grande serata, insomma, di buoni propositi, di grandi progetti di legalità e per alcuni di emozioni ed orgoglio. 

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Antiracket Molfetta, modificare subito la legge nazionale e attivare quella regionale. Nuove iniziative in arrivo

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È iniziata con un chiarimento, delle precisazioni che vanno a rispondere alle voci, talvolta infanganti, dei giorni scorsi, la conferenza stampa della F.A.I. – Antiracket Molfetta Associazione Regionale presso la propria sede molfettese.

«Siamo stati infangati, è stato infangato il nostro lavoro a causa di un'associazione del leccese che ha agito in modo illegale ma che con la F.A.I. non ha nulla a che vedere. Le nostre associazioni non ricevono fondi fallo Stato, né tanto meno siamo dipendenti statali e tutto quello che facciamo, anche a livello di ufficio legale, è svolto in forma volontaria», queste le parole in apertura del presidente, nonché vice presidente nazionale, Renato De Scisciolo.

Una distanza dai fatti di Lecce marcata altresì dalla volontà di costituirsi parte civile nel processo a carico di chi ha purtroppo utilizzato le vide delle vittime del racket e dell'usura per fini ignobili, ha confermato l'avvocato Maurizio Altomare, responsabile dell'ufficio legale dell'Associazione.

Intanto procede l'attività della F.A.I. molfettese e regionale non solo di sostegno alle vittime, ma anche di sensibilizzazione e prevenzione per le strade, alle occasioni pubbliche e direttamente in quei territori in cui tali fenomeni delinquenziali sono marcatamente presenti. E forse quest'azione potrebbe essere uno degli elementi alla base della diminuzione del numero delle denunce: dal 2016 al giugno 2017 le denunce presentate nella provincia di Brindisi sono una per estorsione e e una per usura; per la provincia di Lecce una per estorsione edue per usura; nella provincia di Foggia quattro per estorsione e cinque per usura; nella Bat una per usura e una per estorsione mentre nella provincia di Bari il numero sale con cinque denunce per estorsione e otto per usura.

Molti di quelli che hanno denunciato hanno altresì ottenuto l'accesso al Fondo di solidarietà messo a disposizione dallo Stato in favore delle vittime, ma anche in questo caso la burocrazia pone degli ostacoli sull'iter di accesso: l'associazione sta operando in prima linea a livello nazionale affinché si possa procedere a delle modifiche indispensabili soprattutto per l'art. 20 della legge n. 44/99 affinché le sospensive sugli adempimenti amministrativi delle vittime in difficoltà vengano rimodulate a seconda delle pratiche e delle situazioni. Per questo si sta procedendo con una grande raccolta firme in tutta Italia da presentare al Governo entro dicembre.

Ma anche nello scenario regionale l'antiracket sta operando per districare la situazione di stallo in cui verte la legge regionale 25 del 16 aprile 2015 su "Misure di prevenzione, solidarietà e incentivazione finalizzate al contrasto e all'emersione della criminalità organizzata e comune nelle forme dell'usura e dell'estorsione", la cui effettiva operatività è rimasta sospesa per mancanza di fondi; da qui l'appello al presidente della Regione Michele Emiliano, affinché tale legge possa essere finanziata e così costituire un ulteriore mezzo di aiuto per le vittime andando a colmare le lacune della legge nazionale.

E per quanto riguarda Molfetta? Non si può parlare di un "sistema criminale organizzato" legato a fenomeno di racket o usura, afferma De Scisciolo che espone come in città negli ultimi tempi si è verificato un solo tentativo estorsivo presso la zona industriale ma subito scongiurato grazie alle denunce degli imprenditori all'Associazione e il tempestivo intervento delle forze dell'ordine.

Per questo non si può e non si deve parlare di presenza mafiosa nei nostri territori: «è necessario dare il giusto nome alle cose, soprattutto per noi. La "mafia" è qualcosa di ben preciso e lontano da noi altrimenti si rischia di inflazionare un termine e creare incomprensioni», conferma l'avvocato Altomare.

Perché la mafia, quella vera, è stata appena riconosciuta nel Foggiano, nell'appello nell'ambito del processo in seguito all'operazione denominata "Medioevo", procedimento in cui la stessa associazione si era costituita parte civile, ha affermato l'avvocato Angela Maralfa, coordinatrice regionale della F.A.I. Un risultato dell'investimento di forze e lavoro a Vieste e nel foggiano che alla fine ha portato un risultato importante nonostante la reticenza della popolazione.

Nel corso della conferenza stampa, inoltre, è stata annunciata la nuova edizione del "Premio della Legalità": la manifestazione giunta alla quarta edizione si terrà proprio a Molfetta il prossimo 20 settembre presso la Fabbrica di San Domenico e vedrà tra i premiati il dottor Luigi Rinella, direttore della Seconda divisione del Servizio centrale operativo (Sco) di Roma e già Capo della Squadra Mobile di Bari; dottoressa Patrizia Rautiis, Sostituto Procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari. Saranno inoltre premiate due scuole per il miglior progetto a favore della legalità avviato da ragazzi: l'Istituto Tecnico Economico Statale "Giovanni Calò" di Francavilla Fontana e l'Istituto di Istruzione Superiore "Mons. A. Bello" di Molfetta.

Inoltre sono previste diverse presentazioni di libri legati all'esame delle mafie e dei reati estorsivi e usurai nelle città di Giovinazzo, Terlizzi, Bitonto, Barletta il cui calendario sarà reso noto in seguito.

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Feroce, moderna e familiare, ecco il volto della quarta mafia che insanguina il Sud

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Questa estate l’opinione pubblica nazionale ha finalmente “scoperto” la mafia foggiana. Purtroppo, come capita sempre in questo nostro apatico e smemorato Paese, la scoperta è avvenuta a seguito di un evento clamoroso, l’omicidio di due onesti imprenditori agricoli che per caso si erano trovati al posto sbagliato nel momento sbagliato. I fratelli Luigi e Aurelio Lucianisono stati gli “effetti collaterali” di un agguato di mafia peruccidere il boss del Gargano. Dopo tre mesi non riusciamo a dimenticare le parole di Anna, la moglie di Luigi: “La sola colpa di mio marito è stata quella di andare a lavorare”. Appunto, lavorare, perché per fare onestamente il proprio lavoro di imprenditore in queste terre bisogna mettere in conto la possibilità di morire, come se la morte fosse un inevitabile costo d’impresa.

Nelle scorse settimane la stampa nazionale ha dedicato qualche trafiletto alla notizia dell’approvazione da parte del Consiglio Superiore della Magistratura di una relazione sulla situazione della mafia foggiana, per troppo tempo sottovalutata e colpevolmente nascosta. Il CSM si esprime con nettezza: “Il fenomeno mafioso è, quindi, nell’insieme, compatto, feroce, profondamente radicato sul territorio, su cui esercita un vero e proprio controllo militare”.Procede sottolineando “la capacità di coniugare tradizione e modernità... La tradizione è quella del ‘familismo mafioso’ tipico della ‘ndrangheta e della ferocia spietata della camorra cutoliana; la modernità, invece, è la vocazione agli affari, la capacità di infiltrazione nel tessuto economico-sociale, la scelta strategica di colpire i centri nevralgici del sistema economico della provincia, e cioè, l’agricoltura, l’edilizia e il turismo”. Di conseguenza,l’attenzione non poteva non rivolgersi al mondo imprenditoriale e alle ragioni di acquiescenza e di collusione per denunciare “atteggiamenti di asservimento o di indifferenza nella società civile… che, sul versante giudiziario, si traduce in comportamenti omertosi delle vittime con conseguenti difficoltà investigative e di accertamento giudiziale”.

 

I comportamenti imprenditoriali (non tutti, per fortuna)rappresentano sicuramente la principale ragione di forza della criminalità foggiana. Soprattutto quando la sottomissione non è effetto della comprensibile paura di violenze o rappresaglie, ma bensì di ragionati calcoli di convenienza. “Gli imprenditori, nel corso degli anni, sono passati da un assoggettamento estorsivo di tipo violento, ad un atteggiamento di volontaria sottomissione al sistema mafioso: spesso, infatti, è lo stesso imprenditore che si reca autonomamente dal mafioso per pagare il pizzo, anticipandone in tal modo la richiesta”. Pur se non sempre agisce l’intenzione di un vantaggio diretto, la classica relazione di reciprocità che configura collusione e complicità, secondo il CSM prevale comunque “la consapevolezza che l’agibilità del percorso esistenziale, economico, sociale e familiare non può affrancarsi dalla protezione mafiosa”.

Fa impressione leggere queste parole venticinque anni dopo l’omicidio di un coraggioso imprenditore edile di Foggia e registrare quanto poco in un quarto si secolo sia cambiata la situazione. Era il 6 novembre del 1992. Giovanni Panunzio era in macchina dopo aver assistito al consiglio comunale di Foggia che proprio quella sera approvava, dopo trent’anni, il Piano regolatore della città. Viene ucciso perché non si era voluto piegare e perché aveva iniziato a collaborare con la polizia. Michela Magnifico con la collaborazione di Giovanna Belluna Panunzio ha raccontato questa storia in un libro (“Il coraggio di un uomo”) e riporta alcune parole di Lino, il figlio di Giovanni: “Papà aveva sudato e lottato per andare avanti. Non riusciva proprio ad accettare che qualcuno pretendesse qualcosa da un'altra persona. Allo stesso tempo, papà non avrebbe mai immaginato che coloro che conosceva da anni, i ragazzi della strada, che  come lui erano cresciuti a Borgo Croci, ma che diversamente da lui avevano scelto un’altra strada ‘quella sbagliata’, potessero decidere la sua morte. Quella fisica, materiale, decisa in una città rimasta, a distanza di decenni, schiacciata in un pericoloso vortice di lassismo e ignavia”. Lino aveva 25 anni: “Ero felice perché lavoravo nell'impresa di famiglia e stavo apprendendo tutti i trucchi del mestiere da papà. Trascorrevo la maggior parte della mia giornata con papà, nonostante fossi sposato. Ma io e lui eravamo un'unica cosa. Ricordo la prima volta in cui mi confidò, dopo averlo fatto con la Polizia, di essere stato avvicinato da alcune persone che lui conosceva e che gli avevano chiesto denaro”

Alla fine degli anni ottanta, come ricorda Lino, “la mafia è entrata in casa nostra”: iniziano le pressanti richieste di pizzo, le minacce, le telefonate nel cuore della notte, sino all’aggressivo avvertimento nel 1990, quando due giovani a bordo di una moto si affiancano alla sua auto e gli esibiscono una pistola; il segnale è chiaro: bisogna mettersi a posto. Ma Panunzio si mette a posto a modo suo. Inizia a scrivere un memoriale, con date, ore, luoghi e, soprattutto nomi, segnali, minacce, intimidazioni: pensa che possa essere una garanzia per la propria vita. Perchè non vuole piegarsi.Sa bene qual è la posta in gioco. Tutto quello che ha è solo frutto di durissimo lavoro, di sacrifici, di abnegazione, di tempo sottratto alla famiglia; da muratore negli anni è diventato un imprenditore di successo, non può rinunciare alla sua libertà. In quei momentiha chiaro che se lo facesse butterebbe a mare tutto. Diceva quasi due anni prima Libero Grassi, l’imprenditore ucciso a Palermo il 29 agosto del 1991: “Non sono un pazzo, sono un imprenditore e non mi piace pagare. Rinuncerei alla mia dignità. Non divido le mie scelte con i mafiosi”.

E come Libero Grassi Giovanni Panunzio è stato ucciso perché unica voce fuori dal coro, perché a partire dai suoi colleghi venne lasciato in solitudine; l’opposizione di quell’imprenditore non poteva essere tollerata dalla mafia foggiana, in particolare nel momento in cui attorno al Piano regolatore si muovevano corposi interessi: la ribellione metteva in discussione il controllo dell’attività edilizia. Bisognava impedire che altri seguissero il suo esempio. In quei primi anni novanta, in quei mesi, sembrava che qualcosa stesse veramente cambiando nel nostro Sud. A dicembre del 1990 si costituisce la prima associazione antiracket a Capo d’Orlando, a novembre del 1991 si ha la sentenza di condanna degli estorsori. Per la prima volta si offre all’opinione pubblica nazionale e, soprattutto, agli imprenditori la possibilità di coniugare denuncia e sicurezza, un modello vincente che, anche in Puglia inizia ad affermarsi. Nei primi mesi del 1992 nasce l’associazione antiracket di San Vito dei Normanni, anche qui, come a Capo d’Orlando, commercianti che denunciano e si rivolgono alle forze dell’ordine. Se ne parla molto, ne scrivono i giornali, ne parlano gli imprenditori. Questo nuovo vento va fermato. Non deve arrivare a Foggia. Serve un’azione esemplare, non si può più andare per il sottile: a Foggia la mafia sceglie di essere mafia. L’omicidio di Panunzio serve per far capire a tutti gli altri che quella non è più comune criminalità, è mafia, come quella che pochi mesi prima ha destabilizzato l’Italia a Capaci e a Via D’Amelio.

A noi tutti fu subito chiaro il significato dell’omicidio. Assieme ad altri colleghi dell’associazione di Capo d’Orlando ci precipitammo a Foggia per incontrare i familiari, essere al funerale e offrire l’esempio del nostro modello ai colleghi foggiani. Quel giorno colpì l’assenza di qualunque rappresentante istituzionale e politico come se quel funerale riguardasse una morte per vecchiaia o malattia, insomma, quell’omicidio veniva considerato una semplice storia “privata” di familiari e amici; quelle assenze erano il sintomo della condizione della città. Per molti anni fummo vicini a Lino e alla sua famiglia, entrarono a far parte della “famiglia” dell’antiracket, conobbero altri colleghi, vennero in Sicilia. In quell’occasione mi impegnai ad essere presente al processo. Alla prima udienza mi costituì parte civile con un’associazione nazionale che avevamo promosso proprio dopo la tragedia foggiana come strumento per intervenire laddove non vi erano associazioni. Come a Gela dove, quattro giorni dopo, venne ucciso Gaetano Giordano, un commerciante che aveva denunciato gli estorsori.

Dopo tutti questi anni ancora oggi è centrale il tema della solitudine e dell’isolamento degli imprenditori che si oppongono al racket. Dopo Libero Grassi, dopo Giovanni Panunzio, dopo Gaetano Giordano fu a tutti evidente che l’associazione antiracket è il più efficace strumento per impedire il ripetersi delle tragedie, per dare forza attraverso la denuncia collettiva a tutti gli operatori economici che scelgono la libertà. Non a caso, il documento del CSM si conclude proprio invitando tutti i soggetti istituzionali a valorizzare queste esperienze come quella vincente di Vieste: “Meritano di essere valorizzate le esperienze di associazionismo presenti sul territorio volte a sostenere gli imprenditori vittime del racket o che, anche operando in altri settori, sono, comunque, di sollecitazione e sostegno all’impegno civico e collettivo. A questo scopo soprattutto le istituzioni politiche devono muoversi nella direzione di favorire dette forme di associazionismo e di sostenere quelle già esistenti, se possibile con contributi o agevolazioni economiche, nonché dal punto vista logistico e della organizzazione. Tali interventi sono urgenti.”

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Conferita a de Scisciolo l'onorificenza di Cavaliere

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Il Coordinamento regionale pugliese antiracket intende porgere le proprie sincere e vive congratulazioni al coordinatore regionale antiracket, Renato de Scisciolo, per la nomina a Cavaliere “Ordine al merito della Repubblica italiana”, conferita dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con decreto in data 27 dicembre 2014 e pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 5 maggio scorso.

 

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